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Stemma
Estratto da “Archivio Storico Sardo”, vol. XXXVI (1989), pp.11-19.
LUISA D’ARIENZO
LO STEMMA DEI «QUATTRO MORI» PER LA DEPUTAZIONE
DI STORIA PATRIA PER LA SARDEGNA
L’Archivio Storico Sardo presenta, in questa edizione, un’importante novità che riguarda la Deputazione di Storia Patria per la Sardegna: il nuovo stemma adottato dall’Istituto, che ha ritenuto di far proprio il simbolo sardo dei «quattro mori», sulla base della più antica iconografia risalente al XVI secolo. Una sua immagine è stata riprodotta nella sovraccoperta del presente volume.
Il 5 novembre 1985 l’Ufficio Centrale per i Beni Librari e gli istituti Culturali del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, comunicava alla Deputazione sarda che la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva disposto, con propria circolare, che nessun Ente potesse far uso dello stemma dello Stato, approvato con decreto legislativo del 5 maggio 1948, n. 535.
Precisava, infatti, tale circolare che lo stemma, essendo un attributo della personalità, era esclusivamente proprio del soggetto che ne era titolare e che, pertanto, il suo uso doveva intendersi riservato allo Stato ed ai suoi Organi (art. 4, 2° comma del R.D. 11 aprile 1929, n. 504), rimanendo esclusi i Comuni, le Province e gli Enti morali (art. 57 del R.D. 7 giugno 1943, n. 652).
La Deputazione di Storia Patria per la Sardegna che, come Istituto culturale dipendente dal suddetto Ministero, aveva fatto uso fino a quel momento dello stemma statale, dovette rinunciare al simbolo della Repubblica italiana. Si pose pertanto il problema di scegliere un nuovo stemma e se ne discusse a lungo in diverse sedute del Consiglio direttivo e dell’Assemblea dei soci (5 2 86, 14 7 86, 12 5 87). Tra le varie proposte emerse in quelle sedi, prevalse l’orientamento di adottare lo scudo sardo detto dei «quattro mori» e si deliberò, relativamente all’iconografia, di riprodurre il disegno che appariva nella più antica testimonianza conosciuta sull’uso che, dei «quattro mori», si fece in Sardegna.
Si tratta dello stemma presente nel frontespizio dei Capítols de Cort del Stament militar de Sardenya, pubblicati a Cagliari nel 1590, nella tipografia Galcerino, da Pere Joan Arquer, come riedizione aggiornata dell’omonima opera curata dal Bellit nel 1571. Lo scudo qui presente, di forma ovale, sormontato da una corona marchionale, è suddiviso da una croce piana in quattro cantoni, nei cui angoli sono raffigurate quattro teste di profilo, rivolte a sinistra di chi guarda. Le teste sono cinte sulla fronte da una benda legata agli occipiti; gli occhi sono liberi e non bendati, come nell’attuale stemma della Regione sarda.
Apportando piccole modifiche alla cornice ovale dello scudo, al fine di semplificarne il disegno per poterlo adattare anche a minuscole dimensioni, lo stemma è stato adottato nel suo complesso dalla Deputazione sarda, rimanendone esclusa la corona che lo sovrastava.
La scelta di tale iconografia da parte dell’Istituto è stata motivata dall’esigenza, comunemente avvertita, di adottare uno scudo che affondasse le proprie radici nella realtà storica isolana e il cui disegno non risentisse di quelle imperfezioni che, nei secoli e dietro influenza di particolari orientamenti storiografici o situazioni politiche, erano destinate ad alterarne l’immagine. Niente di più adatto è parso, dunque, che il ripristino della più antica iconografia dello stemma comparsa nell’isola e conosciuta dai sardi.
Un altro motivo di particolare significato storico e morale che ha fatto propendere per tale iconografia era legato al fatto che lo stemma, da ritenersi a quell’epoca distintivo del regnum Sardiniae, era comparso per la prima volta nell’isola in un periodo caratterizzato da profonde tensioni politiche e sociali, durante il quale i Sardi lottavano per far valere l’autonomia del regnum, in contrapposizione all’assolutismo monarchico spagnolo, e per ottenere l’esclusiva degli impieghi pubblici. L’uso dello stemma, in quel contesto storico, pareva voler sottolineare la posizione giuridica del regnum e l’autonomia di cui godeva nell’ambito della Corona, alla pari con gli altri Stati.
Sull’origine iberica e non sarda autoctona dei «quattro mori», tema a lungo dibattuto ma ora definitivamente chiarito in nostri recenti studi, ai quali rimandiamo (1
), non vogliamo dilungarci in questa sede. Giova soltanto ribadire che lo stemma, creato dal re aragonese Pietro il Grande (1276 1285) come simbolo statale della Corona d’Aragona, era comparso per la prima volta nel rovescio delle bolle della Cancelleria reale, dove era realizzato a pieno campo in abbinamento alla tipologia della maestà assisa in trono, che compariva nel diritto degli stessi sigilli. Il primo esempio a noi noto risale al 1281 ed il suo uso sfragistico durò due secoli, fino all’unione delle Corone di Aragona e di Castiglia. Già da quell’epoca le descrizioni dello stemma parlano di teste di mori o saraceni.
In quella circostanza, quando fu creato lo scudo della nuova entità politica formatasi col matrimonio tra Ferdinando e Isabella (1479), i «quattro mori» caddero in disuso e, come simbolo distintivo della Corona aragonese, furono adottati i quattro pali rossi in campo oro (barras) della dinastia regnante catalana. Nello scudo di Spagna comparvero così: il castello e il leone per Castiglia e León; le barras e lo scudo di Sicilia (barras inquartate in decusse con l’aquila imperiale) per Aragona e Sicilia. In quel momento, come abbiamo altrove ipotizzato (2
), lo scudo dei «quattro mori» venne attribuito a due soli regni dell’unione personale, per perpetuarne l’uso e il ricordo: il regno privativo d’Aragona e il regnum Sardiniae, da poco unificato e staccato nominalmente dal regnum Corsicae, al quale era stato unito in un solo titolo reale (regnum Sardiniae et Corsicae) dal papa Bonifacio VIII, quando concesse in feudo le due isole al re Giacomo Il d’Aragona (1297).
Pietro il Grande, nello scegliere l’iconografia dello stemma, aveva inteso identificare nei mori i nemici sconfitti nei quattro stati dell’unione personale, nati attraverso le guerre di riconquista contro gli arabi: Aragona, Catalogna, Valenza e Maiorca. I mori, sinonimo in questo caso di nemici della cristianità, sono raffigurati con una esasperazione delle caratteristiche somatiche, tendenti ad accentuare il colore scuro della pelle e i tratti negroidi, in contrapposizione alla carnagione chiara e ai capelli biondi con cui l’iconografia tradizionale raffigurava Cristo.
Gli arabi, in realtà, non sono negri; però è molto probabile che, nei loro contingenti armati, militassero anche esponenti di tale razza e che sulla fisionomia di questi, si sia voluta forgiare un’immagine terrificante dei più accesi nemici della cristianità. D’altro canto, ancora oggi, nella sterminata penisola arabica, coesistono mescolanze di razze diverse e per chi visitasse i paesi prospicienti l’Africa, lungo il Mar Rosso, sarebbe molto comune poter incontrare arabi con tratti somatici assai vicini a quelli dei negri.
Bisogna poi precisare che, a quell’epoca, erano identificati come mori coloro che provenivano dal Nord Africa, da quelle terre che guardano la penisola iberica dove stava l’antica provincia della Mauritania (da cui: mori o mauri). E poiché l’invasione araba della Spagna era stata fatta attraverso Gibilterra, con un movimento migratorio dai paesi del Nord Africa, che gli arabi avevano conquistato partendo dalla penisola arabica, riducendoli alla fede di Maometto, i mori erano in pratica gli invasori di religione musulmana provenienti dall’Africa, nemici della cristianità, senza una reale distinzione fra arabi e nord africani. I mori, dunque, erano assai scuri di pelle, ma non necessariamente negri, anche se una parte di essi poteva esserlo. I documenti medievali, anzi, parlano addirittura di mori con carnagione bianca (3), lasciando chiaramente intendere che il termine moro era distintivo di chi professava la religione coranica.
I mori, come nemici della fede cristiana, venivano dunque proposti dall’iconografia medievale in modo quasi diabolico, per far meglio risaltare i loro aspetti negativi. Con teste di sembianza negroide mozzate dal corpo, sinonimo di sconfitta, accantonate agli angoli della vittoriosa croce rossa di San Giorgio, patrono della cavalleria cristiana, Pietro il Grande li rappresentò nel nuovo stemma della Corona, al quale volle anche dare una significativa valenza politica: l’unione indissolubile dei quattro stati della Corona e la sua eredità totale sugli stessi. Frontespizio dei Capítols de Cort del Stament militar de Sardenya, pubblicati a Cagliari nel 1590.
Vi appare la più antica testimonianza sull’uso dello stemma dei quattro mori in Sardegna.
Egli infatti non accettava il concetto di stato patrimoniale allora vigente, tipico del Medioevo, in base al quale suo padre Giacomo il Conquistatore aveva diviso i territori della Corona, lasciando in eredità al figlio Giacomo il regno di Maiorca. Per questo motivo Pietro aveva obbligato suo fratello a prestargli giuramento di vassallaggio (1278) ed aveva avviato una campagna militare per il recupero di Maiorca, che si era conclusa positivamente poco dopo la sua morte. Nel momento in cui lo stemma veniva da lui creato, l’identificazione dei mori con i nemici sconfitti nei quattro stati della Corona aveva un significato polemico: voleva indicare la sua eredità totale su tutti i territori paterni, in un periodo in cui, tra l’altro, Maiorca non era stata ancora reintegrata.
I mori dello stemma originario, col profilo rivolto a sinistra di chi guarda, presentano in modo inequivocabile, come si è detto, le caratteristiche somatiche della razza negra: narici dilatate, labbra sporgenti, capelli e barba crespi. Non avevano, poi, alcun tipo di corona o benda sulla testa: queste iniziarono a comparire alla fine del XV secolo, dopo che lo scudo fu attribuito ai soli regni di Aragona e di Sardegna. Era infatti avvenuto che il regno privativo d’Aragona, subito dopo la concessione dello stemma, aveva provveduto ad elaborare una teoria leggendaria sulla sua origine autoctona, in base alla quale la simbologia dei «quattro mori» sarebbe stata ideata dal re aragonese Pietro I (1094 1104) per celebrare la sua vittoria sugli arabi nella battaglia di Alcoraz (1096), quando fu riconquistata la città di Huesca. Lo stemma, dunque, era da intendersi esclusivo dell’Aragona, in quanto risaliva ad un’epoca in cui non era ancora avvenuta l’unione con le contee catalane, realizzatasi, com’è noto, nel 1150, a seguito del matrimonio tra Petronilla d’Aragona e il conte barcellonese Raimondo Berengario IV.
Questa teoria prendeva spunto da un evento miracoloso già narrato in antiche cronache aragonesi, come la Cronica de San Juan de la Penya, secondo la quale il re Pietro avrebbe sconfitto i mori grazie all’intervento prodigioso di un cavaliere, di grande statura e terribile nell’aspetto, che indossava armi bianche ed aveva una croce fiammeggiante sul petto, cioè San Giorgio. La sua comparsa improvvisa nell’agone avrebbe risolto positivamente per i cristiani l’esito del combattimento, a lungo incerto, tanto che i mori, terrorizzati, batterono in ritirata lasciando molti morti nel campo di battaglia. Tale leggenda, ripresa da cronisti aragonesi sullo scorcio del XV secolo, era stata ampliata con particolari fantasiosi, al fine di adattarla alla teoria dell’origine autoctona dei «quattro mori». Dicevano, infatti, quegli autori che, dopo la smagliante vittoria sugli arabi, i cristiani sarebbero tornati nel campo di battaglia per raccogliere il bottino di guerra ed avrebbero trovato quattro teste di mori con turbanti tempestati di gemme, tanto preziose da far ritenere che si trattasse di re arabi. Lo
stemma iberico originario dei quattro mori in un sigillo plumbeo della
Cancelleria reale della Corona d’Aragona (Archivio Storico del Comune di
Cagliari).
Per
celebrare questa importante vittoria cristiana il re Pietro I avrebbe
creato lo stemma dei «quattro mori», accantonando agli angoli della
croce rossa in campo bianco di San Giorgio, le teste coronate dei re
musulmani. Questa teoria si trova già nella Cronica de Aragón di
Guaberto Fabricio de Vagad, pubblicata a Saragozza nel 1499; fu poi
ripresa nel XVI secolo da Lucio Marineo Siculo, dallo Zurita e dal
Beuter ed ancora oggi, in Aragona, viene ritenuta valida.
La nascita
della teoria autoctona determinò, a nostro avviso, una riela¬borazione
dell’iconografia tradizionale dello stemma: a partire da questo momento i
mori apparvero con corone o bende sulla fronte, però mai sugli occhi.
Così furono raffigurati in frontespizi di opere a stampa e in sculture
dell’epoca; così iniziarono a comparire dal 1520 nella monetazione
privativa del regno d’Aragona. La variazione del disegno interessò anche
i tratti somatici dei mori che non sempre furono rappresentati con le
caratteristiche della razza negra. Persa la valenza del significato
originario, perso quel carattere giuridico che lo legava allo stato
catalano aragonese, lo stemma si modificò in alcuni dettagli, che
assunsero poi carattere permanente. Anche quando li adottò per la prima
volta la Sardegna, i mori avevano le bende sulla fronte e gli occhi
liberi, ma non sempre presentavano caratteri negroidi. Così come era
avvenuto in Aragona, anche in Sardegna, dopo l’adozione dello stemma, fu
elaborata una teoria sulla sua origine autoctona sarda, che ricalcava
le stesse tematiche iberiche, ambientate, però, nella nostra isola e
legate alle lotte sostenute dai Sardi per ricacciare gli arabi invasori.
Circa, poi, la posizione della benda sugli occhi, tale variante
intervenne soltanto in epoca tarda, per una imperfezione del disegno,
perpetuatasi fino ai giorni nostri, da imputarsi agli incisori sabaudi.
Come
si è accennato in precedenza, la comparsa dello stemma nella nostra
isola avvenne nel 1590, in un clima di accese rivendicazioni
autonomistiche, in opposizione all’assolutismo monarchico spagnolo;
fuori dell’isola, però, il regnum Sardiniae era già araldicamente
contraddistinto con i «quattro mori» bendati sulla fronte almeno da un
secolo prima. Se ne hanno sicure prove documentarie per il 1516, quando,
nelle onoranze funebri tributate a Ferdinando il Cattolico dalla città
di Bruxelles, sfilò in corteo un cavallo con lo scudo sardo dei «quattro
mori» riprodotto nella gualdrappa: «Le .IIII. chaval portant les armes
de Sardanie assi d’argent a la croix de gulles a .IIII. testes de mores
lyees de tovailles blanches». Così narrava in una cronaca degli
avvenimenti un anonimo spettatore; e di certo l’attribuzione al regnum
era, a quell’epoca, un dato ufficiale, che dovette risalire a Ferdinando
il Cattolico e alla riforma araldica di cui si è detto.
La Sardegna,
dunque, quando nel 1590 iniziò a fregiarsi di uno stemma, che era suo
già da molto tempo e che per tradizione era denominato dei «quattro
mori», dovette farlo con una scelta deliberata.
Stemma della Deputazione di Storia Patria per la Sardegna.
Non è infatti sostenibile l’ipotesi che, per cento anni almeno, i Sardi non si siano resi conto di avere uno scudo proprio, anche perché, ad esempio, l’opera del cremonese Mainoldo Galerati, intitolata De titulis Philippi Augusti Austrii regis catholici liber, scritta per volere del re di Spagna Filippo II e pubblicata a Bologna nel 1573, già conteneva la descrizione del regnum Sardiniae con la riproduzione del suo scudo dei «quattro mori» bendati sulla fronte. E di tale opera, senza dubbio, circolarono copie in Sardegna, una delle quali è ancora oggi custodita presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari.
Lo stemma, quindi, era sicuramente conosciuto nell’isola, ma, per un complesso di motivi che possiamo solo ipotizzare, non era mai stato usato. Una causa concomitante potrebbe individuarsi nella tarda introduzione della stampa in Sardegna, che risale appunto agli ultimi decenni del XVI secolo; ma bisogna pur obiettivamente ammettere che lo scudo dei «quattro mori», del tutto estraneo alla coscienza popolare sarda, ma anzi giuridicamente legato ai conquistatori, dei quali perpetuava il ricordo, non poté certo godere di grande popolarità nell’isola, né tanto meno si dovette sentire l’esigenza di renderlo pubblico.
Questo, riteniamo, dovette avvenire in un primo periodo, quando ancora era troppo vicino e doloroso il ricordo della sanguinosa guerra combattuta contro i nuovi dominatori iberici, per impedire la realizzazione di quel regnum di bonifaciana memoria. Ma quando, col rinnovarsi delle generazioni, si sfumò il ricordo di quei tragici eventi e l’isola entrò gradatamente nell’area culturale iberica, vi fu una presa di coscienza della propria identità e si manifestò l’esigenza di sottolineare la posizione giuridica del regnum, autonomo e con Parlamenti propri, al pari di tutti gli altri regni che costituivano lo stato spagnolo.
L’adozione dello stemma dei «quattro mori» in questo preciso momento storico non può, dunque, essere imputata ad una casuale scoperta; si trattò, a nostro avviso, di una deliberata volontà di fregiarsi di un simbolo che, come distintivo del regno sardo, era anche espressione della sua autonomia. Non può, pertanto, ritenersi casuale neppure la sua prima comparsa nei Capitoli di corte dello stamento militare della Sardegna, quello che, fra i tre bracci del Parlamento sardo, si era maggiormente impegnato nel rivendicare l’autonomia del regnum.
Stemma iberico, dunque, alle sue origini; ma tutto sardo, anzi con implicanze autonomistiche, al momento della sua adozione nell’isola. Ecco perché la Deputazione ha scelto lo scudo dei «quattro mori» nella più antica iconografia sarda di quegli atti parlamentari: per il sapore di genuina sardità che per la prima volta vi si può cogliere e per quella tensione autonomistica che intendeva esprimere; tensione che, pur col mutare dei tempi e delle situazioni politiche, non si è attenuata e continua ad alimentare gli ideali e le speranze delle nostre generazioni sotto lo stesso simbolo.
N O T E
(1) L. D’Arienzo, Lo scudo dei «quattro mori» e la Sardegna, in «Annali della Facoltà di Scienze Politiche» dell’Università di Cagliari, vol. IX, 1983, pp. 252 292; ID., Lo scudo dei quattro mori, in I Catalani in Sardegna, a cura di Jordi Carbonell e Francesco Manconi, Milano, 1984, pp. 199 206.
(2) L. D’Arienzo, Lo scudo dei quattro mori cit., p. 202.
(3) CH. Verlinden, L’esclavage dans l’Europe Medievale, Bruges, 1955, I, p. 363 e s., nota 470, dove sono riportati esempi di mori ridotti in schiavitù in area iberica, con il colore della pelle sia bianco, sia scuro.